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paolo rumiz

Cent’anni fa Trieste e Gorizia entravano a far parte dello Stato italiano dopo cinque secoli di vita nell’impero austro-ungarico e un milione di morti tra i due belligeranti. È un fatto…

05 Novembre 2018

paolo rumiz

Cent’anni fa Trieste e Gorizia entravano a far parte dello Stato italiano dopo cinque secoli di vita nell’impero austro-ungarico e un milione di morti tra i due belligeranti. È un fatto incontrovertibile e condiviso da tutti. Il problema è che è l’unico. Tutto il resto, in questo fatidico 4 novembre, resta indistinto o indicibile. Con l’aggravante che stavolta nella città “cara al cuore” non si avverte nemmeno la passione che meriterebbe un evento di simile portata.

Rispetto al 1968 del cinquantenario, Trieste è distratta, divisa o assente. Presa da altre preoccupazioni, intenta a twittare o sorseggiare aperitivi, persa nella bolla di un vuoto di memoria o nell’euforia del dopo-Barcolana. Ci apprestiamo ad assistere a un rito atteso da anni senza averlo preparato, senza una tempesta di pensieri, senza avere attivato il confronto necessario ad arrivare al gran giorno con un minimo di riflessione.

Dovremmo deciderci. Noi triestini festeggiamo? Commemoriamo? Celebriamo? Santifichiamo? Evochiamo? Condanniamo? E soprattutto, che cosa? Una liberazione? Una conquista? Lo smantellamento di un grande impero? Una redenzione? La fine di una guerra atroce? I Caduti del Tricolore, o anche quelli che furono nemici, tra i quali quindicimila triestini in divisa austroungarica? Non ce lo siamo chiarito. E così arriviamo alla data fatidica in ordine sparso, con un groppo di memorie irrisolte e il rischio di dover assistere per l’ennesima volta alla solfa del derby fra filo-austriaci e italianissimi. Senza una mediazione tra chi rilegge l’Italia come una sciagura, e chi strumentalizza la bandiera per farne un manganello contro lo “stranier”, l’Europa, il mondo.

Per un secolo Trieste e Gorizia hanno vissuto di cattiva memoria, prima per via del fascismo, poi per via del comunismo alle frontiere che rendeva politicamente indiscutibile un’italianità al mille per mille. Qualsiasi riflessione sul passato generava putiferi e strumentalizzazioni. Oppressione degli Sloveni, italianizzazione dei cognomi “allogeni”, persecuzione degli Ebrei, guerra alla Jugoslavia, occupazione tedesca, una complicata Resistenza, esecuzioni sommarie per mano titina, Foibe, Risiera, governo militare alleato, ricongiungimento a un’Italia diventata repubblicana, trattato di Osimo. Per non parlare della madre di tutte le rimozioni: la sorte dei sudditi austriaci di queste terre, comandati sul fronte russo e poi contro l’Italia. Di loro non si doveva parlare, soprattutto se di lingua italiana e soprattutto se buoni combattenti. Oscurati dalla memoria irredenta.

Una ventina di anni fa una commissione mista italo-slovena di storici ha partorito dopo un difficile, pignolo lavoro un testo finalmente condiviso sulle tormentate vicende recenti di questo confine. Ebbene, il documento in questione è stato approvato dal parlamento di Lubiana ma non da quello di Roma. L’Italia ha preferito relegare la storia nel limbo, con l’effetto di lasciare campo libero alle strumentalizzazioni ancora per un ventennio. Il risultato di questo gioco a rimpiattino con la storia è paradossale: dopo gli anni della memoria di parte, ferita, lacerata, ostile, rancorosa, oggi entriamo con un salto a piè pari nell’era dell’amnesia totale. Che volete che gliene freghi della storia a Renzi, Conte o Di Maio & c. , cresciuti con le playstation.

Non è un caso che Trieste non abbia un museo che narri la sua storia. Un luogo dell’identità e dell’appartenenza, dove un nonno possa portare i nipotini e dire loro: “Ecco bambino mio, questi siamo noi”. Un contenitore dove narrare le emigrazioni, gli esodi, le partenze per la guerra, i cantieri delle grandi navi, le ferrovie, l’epopea della vela, le nostre lingue diverse e affascinanti, il sovrapporsi di popoli dal tempo degli Illiri fino a oggi. I nazionalismi si nutrono di terraferma, di sangue e suolo, e sono potenzialmente idrofobi. Anche per questo Trieste non ha ancora un museo del mare degno della sua gloriosa tradizione adriatica. Per non correre il rischio di narrare una storia assai più austriaca che italiana. Rimini e Cesenatico mostrano i loro bragozzi. Noi non abbiamo uno straccio di veliero da far visitare ai forestieri.

È triste dover sperare nel buon vecchio Mattarella, la cui passione europeista è indiscutibile, perché qualcuno metta le cose a posto. Il Presidente lo ha fatto in primavera a Trento, per un’adunata degli Alpini che rischiava di essere contestata dagli austro-nostalgici, portando una corona di fiori ai Caduti di parte absburgica. Lo ha fatto il maestro Riccardo Muti quattro anni fa con un memorabile concerto suonato da un’orchestra internazionale sulle gradinate di Redipuglia. Dalle istituzioni di Trieste e Gorizia non è arrivato ancora un grande gesto simbolico capace di affratellare le parti e dichiarare una comune appartenenza europea. Il confine è caduto, ma a Gorizia una segnaletica che indichi la Slovenia è praticamente inesistente. Da Nova Gorica, invece, entrare in Italia è facilissimo. Vorrà pur dire qualcosa.

Abbiamo paura della storia? Riflettiamo. I riti per salutare l’Italia si svolgono in una piazza austriaca al cento per cento. Questo solo per cominciare. Perché i fatti incontrovertibili sono tanti. L’Italia che sbarcò con l’Audace non vide affatto il bagno di folla del 1954. Ci furono sparatorie, ribellioni. I reduci di guerra austro-ungarici furono spediti in campi di raccolta nel Sud Italia per rieducazione, e spesso maltrattati. I prigionieri italiani restituiti dall’Austria furono chiusi in un ghetto del porto come disertori e spesso lasciati morire di stenti. Furono espulsi o se ne andarono molti abitanti di lingua tedesca, ceca o ungherese. Poi venne la soppressione della lingua slovena, l’olio di ricino, l’incendio del Balkan. Nelle terre redente sbarcavano dal resto d’Italia reduci ingovernabili e una burocrazia borbonica e malfidente. E Trieste, da cuore d’Europa, diventava periferia. L’Adriatico tramontava, lasciava campo libero a Genova e Napoli. Una sequela di sciagure fino alla seconda guerra mondiale e oltre.

Oh sì, certo, l’impero puzzava di morto. Era governato da un Franz Joseph eternamente moribondo. Regnanti resi malaticci da matrimoni consanguinei si erano dichiarati guerra tra loro in stato di assoluta incoscienza. La giovane nazione italiana esprimeva ben altro vigore. Gli Slataper, gli Stuparich, i Timeus, passando a combattere per l’Italia, fecero una scelta che comprendo e persino ammiro per i rischi che comportava. La mia anima garibaldina lo sa perfettamente. Ma l’altra metà di me, quella mitteleuropea, non può non ammettere che l’Italia sbarcata nel novembre del 1918 non fu affatto quella sognata anche dai più ardenti irredentisti. E si chiede: possibile che l’appartenenza all’Italia sia così fragile da non reggere all’ammissione di questi fatti?

La nostra identità europea è stata manomessa al punto che su questo confine facciamo assai più fatica degli altri italiani a sapere chi siamo. La nostra magnifica ambivalenza è stata negata, quella che faceva dire a mia nonna “i Nostri”, sia che parlasse degli Italiani sia che parlasse degli Austriaci. Siamo diversi, siamo complicati. Dobbiamo spiegarlo ogni volta daccapo ai nostri connazionali. E far capire loro che possiamo essere sinceramente italiani solo se questa diversità viene riconosciuta. Se patriottismo è amare una terra con le sue voci, i suoi colori e il suo profumo, ci sentiamo più patrioti di coloro che per decenni, agitando il Tricolore, hanno campato di rancori. O di chi, oggi, accusando i migranti di ogni nefandezza, sostituisce la passione con la rabbia, depistandola sugli Ultimi.

Ho settant’anni e lasciatemi brontolare in pace. Lasciatemi dire che non so che farmene di un evento commemorativo incapace di ammonire sulla ricorrente propensione dell’Europa a farsi del male. Non mi serve un rito costruito per buttare melassa sulla memoria e dirci che la guerra è un evento irripetibile, da museo. Perché nel momento preciso in cui la guerra smette di spaventare, ecco che – come accade oggi – la macchina dei reticolati, dei muri, della xenofobia e della discordia si rimette implacabilmente in moto e l’Europa torna a vacillare. Viviamo un momento pericolosissimo, con un’Italia, paese fondatore di poca memoria, che sembra fare di tutto per rompere con i partner d’occidente e schierarsi accanto ai Paesi ex comunisti più euroscettici, facendo un immenso regalo a Putin. Proprio a cent’anni di distanza, rischiamo per la terza volta uno sfacelo.

Qualche giorno fa sono uscito in barca con Romano Sauro, nipote di Nazario, e ho grandemente apprezzato il suo modo di guardare alla storia del nonno, spogliandola da ogni speculazione retorica e nazionalista. “Il mio confine è l’orizzonte – mi ha detto da bravo navigante – e l’accoglienza è il mio dovere di marinaio”. Poi, bordeggiando verso Miramare, abbiamo parlato del nostro strano Paese che scatena tempeste mediatiche sullo sbarco di pochi migranti e nega l’accesso al porto alle sue stesse navi militari.

Questo mentre l’Italia di cent’anni fa, con un’operazione di salvataggio unica nella storia della marineria, era stata capace di trasportare in Italia dalle coste albanesi ben 220 mila serbi in fuga dalla disfatta. Duecentoventimila uomini distrutti, ammalati, miserabili, ma pieni di dignità. Anche di questo ci siamo dimenticati. Ricordiamo che in quella guerra tremenda i belligeranti non si odiarono. Entrambi capirono di essere stati buttati in un calderone infernale dalla stessa mano. La notte i soldati sentivano i canti di nostalgia dell’avversario, spesso trincerato a poche decine di metri. Annusavano l’odore della sua zuppa. Talvolta si abbeveravano alla stessa fonte, a turno, senza spararsi addosso, per un tacito accordo. Sì, lasciatemi credere che fu dalla percezione di quella follia che uomini con divise diverse cominciarono a pensare assieme agli stati uniti d’Europa.

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